www.lanfrancobinni.it
La Rivoluzione italiana: lettere dal fronte
Con il titolo Les Garibaldiens. Révolution de Sicile et de Naples Dumas pubblica a Parigi, presso l’editore Michel Lévy, nel 1861, un insieme di lettere a Giacinto Carini destinate alla pubblicazione su giornali italiani e francesi («La Presse», «Le Siècle», «Le Constitutionnel», «Le Sémaphore de Marseille»), scritte tra il 28 maggio e il 15 novembre 1860; Carini, dopo aver partecipato alla rivoluzione siciliana del 1848, esule in Francia, ha fondato e diretto la «Revue franco-italienne» (dal 1854) e il «Courrier franco-italien» (dal 1859), per poi partecipare alla spedizione dei Mille con il grado di comandante di una delle sette compagnie. Per l’edizione in volume, Dumas ha rivisto, corretto, in qualche caso ampliato i materiali già trasmessi a Carini e pubblicati sui giornali, nell’intenzione di dare organicità alla sua narrazione “in diretta”, da corrispondente di guerra, degli avvenimenti siciliani e campani della Rivoluzione italiana.
Les Garibaldiens sembra dunque appartenere al genere della memorialistica, ma in un autore che, ormai nella fase della sua piena maturità, ha fatto dell’arte della narrazione una pratica esuberante e appassionata di sconfinamento deliberato di genere in genere, di storie in storie, proponendo una concezione della letteratura come assemblage a più dimensioni di materiali, documenti, tracce e invenzioni, stereotipi e imprevisti, con un retroterra sempre presente di romanziere e drammaturgo, con una grande esperienza dei tempi e dei ritmi (teatrali) della narrazione.
Nel 1860 il funambolo creolo, in antico e costante conflitto con l’ambiente accademico parigino che non gli perdona le sue invadenti intemperanze e non gli riconosce qualità letterarie, è di nuovo in una fase di ascesa: l’editore Michel Lévy gli ha proposto di pubblicare le sue opere complete, sulla base di un contratto importante che lo rende di nuovo ricco dopo il disastro finanziario del Théâtre Historique. Può finalmente realizzare un antico sogno: un lungo viaggio in Grecia e in Medio Oriente, che gli permetterà di rinnovare profondamente il repertorio del suo immaginario e di dedicare al Mediterraneo, crocevia di popoli e culture, una nuova narrazione contemporanea. Ma sui preparativi del viaggio irrompe la Storia: interrotto nel 1859 dalle diplomazie europee il processo dell’indipendenza italiana, agli inizi del 1860 è Garibaldi a riprendere l’iniziativa, per risolvere militarmente la questione dell’Unità italiana con una spedizione contro il regno borbonico.
Dumas e Garibaldi si conoscono indirettamente da più di dieci anni, dai tempi dell’assedio di Montevideo da parte delle truppe del dittatore argentino Rosas. Nel 1850 Dumas ha dedicato “agli eroici difensori” della capitale uruguayana un pamphlet, Montevideo ou une nouvelle Troie (Montevideo o una nuova Troia), nel quale un ruolo centrale era rappresentato da Garibaldi, figura in quel momento controversa: amato dai cospiratori, odiato e denigrato dai conservatori e dai moderati, anche a seguito delle vicende della Repubblica romana del 1849. E’ stato Dumas, tra i primi, a trasformare l’immagine di Garibaldi, considerato dai conservatori latinoamericani un bandito e un saccheggiatore, e in Europa un pericoloso e inaffidabile sovversivo, in quella figura di purissimo e disinteressato rivoluzionario internazionale, campione di giustizia sociale e di sobrietà personale che si affermerà con l’impresa dei Mille: «Tra gli uomini che concorsero alla difesa di Montevideo, e che saranno ricompensati non dalla riconoscenza di una sola città, ma da quella di un’intera nazione, va annoverato innanzitutto Giuseppe Garibaldi, che, proscritto in Italia, dove aveva combattuto per la libertà, proscritto a Rio Grande per aver concorso a fondare una repubblica, verso il 1841 venne a offrire i suoi servigi a Montevideo. Tentiamo di far conoscere ai nostri contemporanei, dal punto di vista fisico, un uomo che si è già elevato a un’altezza tale che lo si può attaccare solo calunniandolo. Garibaldi è un uomo di quarant’anni, di altezza media, ben proporzionato, con capelli biondi, occhi azzurri, fronte, naso, mento greci, cioè che si avvicinano quanto più possibile all’autentico tipo della bellezza, come il Gesù dell’Ultima cena di Leonardo da Vinci, cui assomiglia molto. Porta la barba lunga; il suo abbigliamento abituale è una sorta di casacca aderente al corpo, o addirittura una camicia senza alcuna insegna militare; i suoi movimenti sono pieni di eleganza; la sua voce, di infinita dolcezza, somiglia a un canto. Abitualmente è più distratto che attento, e sembra più un uomo pacato che di immaginazione, ma pronunciate davanti a lui le parole “Italia” e “indipendenza” e lo vedrete risvegliarsi come un vulcano, con le sue eruzioni di fuoco e i suoi torrenti di lava». Questo, nel 1850, è già il ritratto oleografico dell’eroe dei due mondi, nella penna di uno scrittore non ancora condizionato dall’edulcorata agiografia post-unitaria. Giustamente Dumas ricorderà nel 1862, in Une odyssée en 1860 (Un’odissea nel 1860), un nuovo assemblage dedicato alla spedizione dei Mille che includerà in parte le lettere dei Garibaldiens: «Ecco che cosa scrivevo di Garibaldi nel 1849, nel momento in cui tutti i giornali lo insultavano e lo calunniavano. Il mio libro attraversò il mare: Garibaldi mi ringraziò con un biglietto».
Accanto all’ammirazione incondizionata per Garibaldi, entra in gioco un altro elemento, di ordine strettamente autobiografico: Dumas ha da sempre un conto aperto con i Borboni di Napoli, ai quali attribuisce la responsabilità di aver avvelenato suo padre, generale napoleonico, prigioniero a Brindisi di ritorno dalla spedizione in Egitto; ne parla, non a caso, nella prima lettera dei Garibaldiens: «Io ci metto anche un po’ d’amor proprio personale a veder la Sicilia conquistata da Garibaldi: da tanto tempo, come Hernani in guerra contro Carlo Quinto, io sono in guerra con il re di Napoli e, come il bandito spagnolo, dirò: L’assassinio, tra noi, è affare di famiglia! Non ho ucciso nessuno della famiglia del re di Napoli; ma mio padre, reduce dall’Egitto e catturato di sorpresa a Taranto, fu rinchiuso nelle segrete di Brindisi col generale Mascourt e lo scienziato Dolomieu. Furono tutti e tre avvelenati per ordine del prozio dell’attuale monarca; Dolomieu morì, Moscourt diventò pazzo, mio padre resisté e non morì che sei anni dopo di cancro allo stomaco. Aveva quarant’anni». Nella stessa lettera ricorda di essere stato in Sicilia nel 1835, e di essersi messo in contatto con i carbonari di Palermo, solidarizzando con la loro causa.
È la Storia migliore a coinvolgere Dumas nel gennaio 1860. E Garibaldi, vendicatore di popoli, entra facilmente nell’universo poetico e mitologico del generoso autore di Georges e del Comte de Monte-Cristo (Il conte di Montecristo). Con il solito entusiasmo, senza la minima incertezza, Dumas mette in gioco la propria esperienza e il proprio lavoro. Ora deve assolutamente incontrare Garibaldi. Lo incontra a Torino il 4 gennaio, e si impegna a procurare armi per la spedizione. Lo incontra di nuovo pochi giorni dopo in una villa sul lago di Como, e Garibaldi gli affida la traduzione francese delle sue Memorie fino al ritorno in Europa nel 1849. Con la sua infaticabile capacità di lavoro, Dumas traduce, riscrive, adatta il testo autobiografico di Garibaldi. Entro la fine di gennaio è già completamente immerso nella sua nuova condizione di garibaldino; il 31 gennaio, in una corrispondenza per «Le Siècle», dichiara la propria totale adesione alla causa dell’Unità italiana: «Scrivo, immerso nelle informazioni più certe e negli eventi che accadono sotto i miei occhi, alcune lettere sull’Italia e sulla storia di Garibaldi (…) Uno dei miei compatrioti ha detto prima di me, e io ripeto dopo di lui questa grande verità: no, l’Italia non è la terra dei morti…» In pochi mesi conclude il lavoro sulle Memorie di Garibaldi, e si prepara per partecipare alla spedizione. A Marsiglia acquista una goletta, l’Emma, elegante e soprattutto veloce; a bordo, poche persone, tra cui il fotografo Gustave Le Gray (sarà suo il celebre ritratto di Garibaldi a Palermo, con la mano destra sull’elsa della spada), il pittore Édouard Lockroy, una giovane amante dal singolare aspetto androgino, Émilie Cordier (resterà incinta durante il viaggio), e una cassa di carabine che ha promesso a Garibaldi.
La prima lettera (Genova, 28 maggio 1860) di Les Garibaldiens è indicativa del metodo che Dumas intende seguire nel suo reportage; è quasi una dichiarazione di poetica: «Mi sia consentito di entrare nei più minuti particolari. Se questa spedizione andrà a buon fine, se conseguirà gli immensi risultati che, una volta riuscita, non potrà non avere, essa sarà, con il ritorno di Napoleone dall’isola d’Elba, uno dei grandi fatti del nostro secolo diciannovesimo così fecondo di avvenimenti. Un giorno, quando lo storico si accingerà a scrivere di questa meravigliosa epopea – sul cui svolgimento non ho il minimo dubbio se penso all’uomo predestinato che ne è l’eroe – sarà lieto di trovare, presso un testimone quasi oculare, tutta una serie di fatti pittoreschi ma, nondimeno, assolutamente veri». La testimonianza diretta sarà integrata con informazioni, documenti, testimonianze altrui, a comporre un quadro a più dimensioni dell’epopea garibaldina. E la narrazione non sarà astrattamente “oggettiva”, ma vivrà delle impressioni, delle valutazioni, dei giudizi del suo “testimone quasi oculare”. Insomma si tratterà di un reportage d’autore, di un autore ostinato ad attraversare il tempo e lo spazio con passione e libertà di giudizio. I memorialisti, gli eruditi locali, gli storici accademici, si astengano. La grande Storia e le storie individuali, i fatti e il loro colore, le impressioni empatiche e i giudizi politici comporranno un caleidoscopio mobilissimo, ricco di immagini concrete e punti di fuga, in un montaggio che intende mettere in scena la Storia nella sua complessità. Per chi conosce la poetica di Dumas, questa non è certo una novità. È invece una novità, significativa non solo dal punto di vista letterario, l’applicazione della “poetica della complessità” di Dumas a un reportage di bruciante attualità. Sull’asse centrale della narrazione delle choses vues, della dura realtà dei fatti, con tutto il valore della testimonianza oculare, il congegno narrativo prevede allora, come nei grandi romanzi di Dumas, le considerazioni di ordine sociale, politico e morale, i dettagli “pittoreschi”, i sensazionali coups de théâtre: tutto deve concorrere alla restituzione del senso della Storia narrata. Lo stesso ruolo di Dumas garibaldino, caricato di protagonismo egoico secondo i soliti detrattori parigini (in prima linea Pierre Larousse) o infastiditi memorialisti garibaldini come Giuseppe Bandi, rientra in questa logica prevalentemente narrativa: Dumas, con la consueta generosa esuberanza, partecipa attivamente al processo rivoluzionario, saltando di qua e di là con la sua goletta, correndo in Francia a comprare armi, trattando negoziati, mettendo in gioco la sua grande fama e credibilità di scrittore. Il suo protagonismo è anche convinzione di saper vedere la cronaca dal punto della Storia, con uno sguardo lungo che va oltre gli avvenimenti.
E va oltre gli avvenimenti della spedizione dei Mille l’impegno italiano di Dumas. Incaricato da Garibaldi di svolgere un ruolo attivo nella ricostruzione della Napoli post-borbonica, come direttore del Museo archeologico e degli scavi di Pompei, e soprattutto attraverso un giornale, «L’Indipendente», che per alcuni anni proseguirà su un piano culturale e politico l’impresa di Garibaldi, Dumas svilupperà molte delle intuizioni di analisi spesso solo accennate nelle lettere dei Garibaldiens: il degrado culturale e sociale di un paese corrotto da quattrocento anni di dominazione spagnola e borbonica, asservito alla Camorra, la chiusura provinciale di un’intellettualità litigiosa e invidiosa. Non si farà amare. E nel 1865, dopo aver dedicato alla città una monumentale storia dei Borboni, che rimarrà incompiuta, e il romanzo La San Felice (La Sanfelice), potente affresco storico dell’esperienza drammatica della Repubblica partenopea del 1799, riprenderà il largo. Come il conte di Montecristo, conclusa la sua missione.
(prefazione ad Alexandre Dumas, I garibaldini, Roma, Editori Riuniti University Press, 2011)