Una diagnosi sbagliata?
Mi ha colpito molto un articolo, breve e clamoroso, pubblicato dalla microbiologa e virologa Maria Rita Gismondo, una voce fuori dal coro, nella sua rubrica “Antivirus” su «il Fatto Quotidiano» del 3 maggio, e ancora di più mi ha colpito il silenzio che gli è stato riservato dai competenti tecnico-scientifici della medicina di potere e dai media. Riporto integralmente il testo:
Questo virus non finisce di stupirci. Per due mesi abbiamo rincorso i posti letto in rianimazione, abbiamo parlato di polmonite interstiziale: oggi le autopsie ci fanno scoprire ben altro. Al Sacco di Milano e al Papa Giovanni XXIII di Bergamo ne sono state eseguite 70. È venuto fuori che la polmonite è un sintomo successivo, e forse anche meno grave, di quello che il virus provoca nel nostro organismo. Questa ipotesi era già stata avanzata dal dottor Palma, cardiologo di Salerno, tra le critiche dei soliti soloni mediatici: SarsCoV2 colpisce soprattutto i vasi sanguigni, impedendo il regolare afflusso del sangue, con formazione di trombi. La polmonite ne è una delle conseguenze. Nella terapia di questi pazienti, ci siamo quindi focalizzati su uno e forse non il principale meccanismo patogeno del virus. I pazienti deceduti, al netto di altre patologie pregresse, avrebbero sofferto le conseguenze delle prime diagnosi sbagliate. Covid19 è una malattia vascolare sistemica. I polmoni non possono ventilare, malgrado l’insufflazione forzata di ossigeno, perché non vi arriva sangue. Addirittura i respiratori avrebbero peggiorato l’esito della malattia. L’ipotesi italiana è oggi confermata anche dagli Usa. Questa nuova conoscenza porta a una vera rivoluzione. La prima osservazione per fare diagnosi è quindi il livello di infiammazione. E i farmaci con cui intervenire immediatamente sono quelli che possono prevenire o curare infiammazione e formazione di trombi. Tutti farmaci già in uso e a basso costo. Chiuderemo definitivamente le terapie intensive Covid19?
Le pratiche invasive delle terapie intensive si vanno rapidamente riducendo in tutta Italia, anche perché la gente ha intuito i rischi mortali degli ospedali infetti e soprattutto che rispetto al Covid-19 l’unica terapia è affidarsi alla speranza che la malattia si risolva da sé. Intanto in intere zone del nord industrializzato e inquinato sono morte “ufficialmente” più di 30.000 persone (ma i morti in casa sono molti di più), e medici e infermieri sono stati esposti alle infezioni senza le protezioni minime. La retorica istituzionale degli “eroi” riservata al personale sanitario che ci ha lasciato la pelle è un cinico alibi per le clamorose inadempienze del sistema sanitario nazionale pubblico e privato, della Protezione civile e dell’intero sistema politico statale e regionale; si moltiplicheranno i processi nei tribunali, e comunque agli uccisi non sarà resa giustizia.
Questa sera si replica a soggetto
L’attuale governo italiano dal colore indefinibile è il migliore non-governo possibile. Tutti gli attori del sistema politico in crisi e i loro comprimari della sedicente opposizione di destra (ma i vasi comunicanti all’interno del sistema vivono di pratiche trasformistiche sempre auspicate e possibili) sopravvivono nel disgustoso spettacolo di una politica intesa come piccola amministrazione (toppe e rattoppi, ritardi, nequizie e furbizie) di un esistente che in realtà è ingovernabile in assenza di visioni strategiche e scelte conseguenti. La crisi “virale” mondiale ha messo a nudo le sue vere cause (cambiamenti climatici, modi di produzione capitalistici, conflitti geopolitici), e il virus Covid-19 è piovuto e continua a piovere sul bagnato. In Italia, anello debole dell’economia europea malgrado le precarie virtù delle piccole e medie imprese, la crisi attuale si aggiunge alla crisi mai risolta del 2008, in un paese che è in recessione dal 2011; e l’emergenza sanitaria si sta trasformando in nuova crisi economica: all’inizio della pandemia il virus ha colpito soprattutto i vecchi (per molte concause ben note, le famose patologie pregresse in aree geografiche avvelenate da inquinamenti di varia natura, atmosferici e politici); la fase successiva (la vera “fase 2”, economica) colpisce e colpirà soprattutto le generazioni giovanili con tutte le loro “patologie pregresse” (la precarizzazione del lavoro, nuove-antiche povertà, drastica riduzione dei diritti sociali e civili). L’orrenda normalità del capitalismo terminale con la sua falce ordo-liberista tenta comunque di mettere ordine (il suo ordine) in un paesaggio sociale sempre più devastato. Nelle ciniche recite a soggetto dei replicanti di una politica a cui nessuno crede, né i “governanti” né i sudditi, si sprecano gli annunci per “tenere alto il morale”: andrà tutto bene, nessuno sarà lasciato indietro, le tecnologie informatiche permetteranno una grande riforma dei modi di produzione, una trionfale nuova modernità. Una parvenza di “dialettica politica” tra maggioranza e opposizione (minacce, sussurri e grida), alimentata e amplificata dai media (la merce è merce) tenta invano di distrarre gli “spettatori” dalle vere poste in gioco.
Governo debole, nuova socialità
L’attuale area di governo è espressione mediata e contraddittoria del processo di cambiamento iniziato con le elezioni politiche del 2013; vi esercita un ruolo determinante, per numero di parlamentari, la componente politica più giovane, duramente provata dal difficile passaggio dall’opposizione alla governabilità, dall’improbabile coesistenza di radicalità “dal basso” (l’originaria rivendicazione di una “democrazia diretta”) e di pratiche trasformistiche di “governo per il governo”. Restano tuttavia all’interno della società, in vaste aree di popolazione, le ragioni del cambiamento che avevano spinto al governo il Movimento 5 Stelle. L’attuale esperienza collettiva dell’emergenza sanitaria ha rafforzato nell’opinione pubblica i temi della centralità del “pubblico”, del sistema sanitario pubblico, della scuola pubblica, del lavoro operaio, dei beni comuni, del ruolo delle istituzioni, del passaggio culturale dall’“io” al “noi”. Nei prossimi mesi dovremo analizzare con attenzione questa esperienza collettiva di confronto ravvicinato, nella vita quotidiana, con i temi grandi e piccoli delle relazioni interpersonali, delle visioni della vita e della morte, della specie umana e dei suoi limiti, del potenziale umano, della questione centrale del potere.
La globalizzazione neoliberista è stata sconfitta dalla globalizzazione di una pandemia virale che coinvolge l’intero pianeta e ne stravolge gli assetti politici; la crisi profonda dell’ex-impero statunitense ne è il segno più vistoso, ed è utile oggi rileggere la parabola brechtiana di Ascesa e rovina della città di Mahagonny, la città-trappola del capitalismo predatorio costruita nel deserto da una banda di gangster in fuga e distrutta da un uragano.
Di «nuova socialità» cominciò a parlare nell’Italia del 1944 Aldo Capitini, socialista libertario, teorico e organizzatore di esperimenti di democrazia diretta su cui ha insistito fino alla morte nel 1968, per una ricostruzione dal basso di una società di liberi ed uguali centrata su un «potere di tutti» che liberi la realtà dalle sue rovine e dai suoi errori sociali e culturali. Usò il termine di “nuova socialità” a superamento di una socialità generica, di sopravvivenza biologica inconsapevole, e invece come terreno di trasformazione rivoluzionaria delle esistenze individuali e collettive, e del mondo. Capitini, nella sua concreta utopia, pensava a una radicale rifondazione anche dello Stato e operò in questo senso per uno Stato realmente democratico e socialista in cui svolgessero un ruolo fondamentale le esperienze di potere dal basso, rompendo radicalmente con lo statalismo fascista e pre-fascista, liberalproprietario. La cifra essenziale della rivoluzione nonviolenta di Capitini era la formazione di soggettività consapevoli e attive nelle classi popolari e tra gli intellettuali, uniti tra loro da forti tensioni progettuali e da una concezione del “fare società” come sintesi di etica collettiva e costruzione politica di nuove relazioni tra persone, tra generazioni, tra presente e passato. In Italia la crisi della sinistra storica in tutte le sue articolazioni, crisi di credibilità soprattutto presso le classi popolari, è dovuta principalmente proprio a questa assenza di lavoro politico-culturale fondamentale, determinando la consegna dei suoi elettorati tradizionali alle manipolazioni fascistoidi della destra. Da questo deficit di pratica sociale rivoluzionaria, indispensabile a ogni vera trasformazione sociale, politica e culturale, non è risultato immune neppure il cambiamento radicale di prospettiva promesso dal M5S alle sue origini.
La grande illusione
Il neo-liberalismo ha devastato il pianeta; la sua insostenibile “uscita di sicurezza” è il vecchio paradigma antisociale di un modello di sviluppo malthusiano disposto a tutto per resistere nelle sue pratiche predatorie e devastanti. Questa storia (Marx la definì «preistoria») continua nei suoi riti più banali e più crudeli, dallo spaccio di merci inutili e di guerre alla manipolazione compulsiva delle coscienze, all’esaltazione del consumismo idiota e di un paleocapitalismo ammantato di nuove modernità tecnologiche gestite da multinazionali statunitensi e affini, ai miti neoliberali dello Stato azienda e dello sfruttamento privato dei beni comuni. Questo processo è particolarmente evidente in Italia e coinvolge direttamente lo Stato nelle sue varie articolazioni e l’attuale governo: i provvedimenti economici di “emergenza” raggiungono solo in minima parte e in maniera inefficiente le fasce deboli della società, e si concentrano invece, con finanziamenti “a pioggia” e “a fondo perduto” sulle imprese grandi e medie, in obbedienza servile ai ricatti di un modello di sviluppo fallimentare e alla collocazione geopolitica del paese (le dichiarazioni di fedeltà atlantica al governo statunitense si sprecano, e si sprecano sempre più ingenti risorse economiche in armamenti offensivi, come i bombardieri F35, strumenti di attacco nucleare). Inefficiente lo Stato, e non è solo un problema di burocrazia quanto piuttosto di visione politica. Inefficienti le Regioni, prigioniere del loro status di satrapie di sottogoverno autocratico. Assenti le Province, chiuse nel loro limbo istituzionale. Costretti all’inefficienza i Comuni, abbandonati alla loro miseria economica. E si aggrava l’endemica distanza tra Nord e Sud: i provvedimenti economici di emergenza si concentrano sul Nord sviluppista, focolaio della pandemia italica (tanto per insistere sulle concause che hanno favorito la diffusione della pandemia) e si riserva al Sud un ruolo di sussistenza turistica.
E l’Europa dei “mercati”? Anche qui la retorica istituzionale e mediatica si spreca (“solidarietà”, “unità nella diversità”…) mentre nella disunione europea si approfondisce il divario tra Nord e Sud, con un ritorno alle politiche di austerità gestite dai paesi del Nord contro quelli del Sud. Su questa strada l’Unione europea si rivelerà definitivamente un imbroglio tecnocratico, un’illusione ideologica dei “mercati”, lasciando il campo a una radicale rifondazione federativa di aree del continente, nella prospettiva politica e non solo economica di quegli “Stati uniti d’Europa” a cui gli antifascisti socialisti cominciarono a pensare già alla metà degli anni trenta del Novecento; su quella linea operò nel dopoguerra, e fu sconfitta dalla restaurazione, la rete politica e culturale di «Europa socialista», la rivista dell’eretico Ignazio Silone.
La grande occasione
Niente è peggio del “meno peggio”. La crisi strutturale del modo di produzione capitalistico, aggravata da una crisi pandemica che ha bloccato le economie occidentali, determinerà scenari inediti; l’attuale rafforzamento securitario degli esecutivi, con i suoi corollari di preteso controllo sociale, barriere identitarie, guerre economiche e nuove guerre reali, non permetterà soluzioni riformistiche. Le classi sociali occultate da decenni di propaganda liberista riemergeranno in tutta la loro conflittuale centralità. O la Borsa o la vita. «Il nostro paese – si legge in un comunicato del coordinamento nazionale di Potere al Popolo, 29 marzo 2019 – ha le risorse per uscire da questa condizione: ha grandi patrimoni di evasori e speculatori da andare a recuperare, ha una Costituzione e delle leggi che consentono la redistribuzione della ricchezza e la subordinazione degli interessi privati a quelli della collettività, ha ancora un patrimonio industriale e delle competenze fra le più alte al mondo. Si tratta dunque “solo” di lottare per cambiare le politiche che ci stanno uccidendo».
Alcuni criteri collettivi da seguire: 1) “tenere le distanze” dalle aporie e dai riti dei sistemi politici in crisi, esercitando controllo e controinformazione dal basso; 2) creare e organizzare il “potere di tutti” in concrete situazioni di nuova socialità attraverso esperienze e processi di autonomia, autorganizzazione, mutualismo, anche sperimentando nuove relazioni con gli Enti locali, a cominciare dai piccoli Comuni; 3) portare il lievito del conflitto sociale e delle culture di cambiamento nelle reti dell’associazionismo solidaristico, per sviluppare processi di aggregazione e nuovo protagonismo sociale; 4) spazi autogestiti, centri sociali, piccoli gruppi attivi nella pratica sociale svolgono in questa fase un ruolo fondamentale di “centri” aperti, partendo da sé per interagire con gli altri, per costruire reti di scambio e cooperazione; 5) unire alla pratica sociale (e la prassi è condizione di conoscenza) lo studio delle esperienze storiche delle lotte di classe, del socialismo, del comunismo, dell’anarchismo, dei movimenti di liberazione, dell’internazionalismo, il nostro straordinario retroterra da conoscere, rileggere e ripensare per costruire relazioni di “compresenza” attiva, non genericamente culturalista, tra esperienze del presente e del passato.
«Non solo in caso di peste»
Aprendo a caso, ma non per caso, un libro pubblicato da Giuseppe Rensi nel 1937, nel clima della peste del fascismo trionfante e alla vigilia della seconda guerra mondiale, Frammenti d’una filosofia dell’errore e del dolore, del male e della morte, ho incontrato questo “frammento”:
Chi possiede il senso della realtà riguardo alla vita umana resta esterrefatto leggendo quello che scrive Tucidide, II, 53.
È il famoso paragrafo dov’egli racconta gli effetti morali della peste d’Atene. Vedendo (dice) le improvvise mutazioni arrecate dalla pestilenza, gente ricca che moriva, poveri che ereditando diventavano improvvisamente ricchi, gli uomini si diedero a tutti i godimenti del momento, avendo l’impressione che tanto gli averi quanto i corpi fossero effimeri, che non valeva la pena di intraprendere alcun onesto lavoro poiché non si poteva sapere se non si morisse prima d’averne realizzato i risultati, che la religione era vana giacché erano colpiti del pari credenti e non credenti, che si poteva violare ogni legge perché tanto si sarebbe morti prima di subire la pena, mentre un’altra pena, quella della morte di peste, sovrastava, avanti di incorrere nella quale l’unica cosa sensata era di godersi la vita.
Bisogna proprio essere inguaribilmente ciechi perché ci sia bisogno della peste per accorgersi che la vita umana è effimera; perché non si sappia scorgere che, peste o non peste, la condizione della vita umana è sempre quella da Tucidide in quel paragrafo descritta; perché non si sia capaci di vedere che tale la rende la semplice presenza della morte comune, sempre pressoché altrettanto accidentale e impensata quanto quella che avviene in un contagio; e perché quindi non si capisca che tutte le constatazioni e le conseguenze messe qui in luce da Tucidide sono quelle che valgono, non solo in caso di peste, ma costantemente e regolarmente.
Trent’anni dopo questo libro del 1937, scritto da uno scettico (in senso classico) indagatore del male e dell’assurdo dell’esistenza e della storia umana, la “cognizione della morte” produrrà in Capitini il suo libro di tutta una vita, La compresenza dei morti e dei viventi (1966), sulla vitalità dei morti nella loro cooperazione con i viventi nella creazione dei “valori”: il bello in una realtà orribile, il buono contro la “banalità del male”, il giusto in un mondo profondamente ingiusto che è doveroso trasformare. La consapevolezza della morte e del ruolo attivo dei morti in colloquio con i viventi diventerà in Capitini un potente strumento di conoscenza e di prassi rivoluzionaria. Perché anche la morte, non rimossa, non gestita dal potere di pochi come strumento di paura e controllo sociale dei molti, è un sapiente strumento della realtà liberata, qui e ora, nell’al di qua. Cambiare la vita, trasformare il mondo. Hic Virus, hic salta.